Conosci Te Stesso

Vuoi reagire a questo messaggio? Crea un account in pochi click o accedi per continuare.

2 partecipanti

    Racconto dei saggi Sufi

    libellula
    libellula


    Messaggi : 58
    Data d'iscrizione : 02.12.11

    Racconto dei saggi Sufi Empty Racconto dei saggi Sufi

    Messaggio  libellula Lun Feb 25, 2013 6:25 pm

    Yunus

    Yunus Emre inventò un tempo canti che sono durati più del ricordo stesso della sua vita. Fu anche un infaticabile ricercatore di verità.
    Quando per la prima volta gli venne nel cuore l’avidità di sapere che lo gettò sulle strade del mondo, aveva vent’anni, forse meno.
    Partì, sapendo che il desiderio che lo assetava lo conducesse da un maestro in grado di illuminarlo.
    Gli fu dato d’incontrare tale maestro dopo dieci anni di misera erranza, nel vento impetuoso di una collina, in piena steppa anatolica. Si chiamava Taptuk ed era cieco.

    Anche Taptuk aveva camminato a lungo, ma aveva seguito strade diverse da quelle di Yunus. Fin dall’adolescenza, si era rasato il capo e le sopracciglia, si era messo in capo un berretto di feltro rosso e se n’era andato a combattere gli invasori mongoli. Aveva attraversato carneficine e vittorie effimere, aveva cavalcato con la sciabola fra i denti all’inseguimento di uomini pazzi quanto lui, si era ridotto l’indomani in cenci insanguinati.
    Aveva odiato,saccheggiato, ucciso, perduto e cercato cento volte la sua anima nel furore dei combattimenti, finchè il silenzio calò sul suo capo. Una sera di sconfitta, era stato lasciato come morto su un campo di battaglia. Si era trascinato alla riva di un ruscello dove una donna, la prima della sua esistenza (eccetto qualche puttana di taverna), si era finalmente chinata su di lui.
    Lo aveva raccolto, curato, guarito ma non era stata in grado di restituirgli la vista che una sciabola gli aveva tolta. Allora lei gli aveva dato la sua vita, la sua mano per condurlo, e da quel giorno, guidato dalla sua sposa, Taptuk aveva pensato soltanto ad aprirsi un cammino dentro di sé fino alla fonte silenziosa da cui si innalza la luce che rende semplice ogni cosa. Una sera, in quel deserto di alte erbe in cui non si avventura mai nessuno, tranne rari pastori smarriti e alcuni resti di eserciti in rotta, aveva raggiunto tale fonte. Aveva dunque deciso di non spingersi oltre e aveva costruito lì la sua casa. Altri cercatori lo avevano raggiunto, di quando in quando, spinti non si sa di quale vento dell’anima. Avevano conosciuto in quell’uomo imponente e paco di parole il maestro che aspettavano. Avevano dunque costruito la loro capanna accanto alla sua, poi innalzato una recinzione attorno quelle umili casupole.

    Quando Yunus Emre giunse in quel quel luogo, il monastero di Taptuk il cieco non era altro che un gruppo di costruzioni basse circondate da un muro a secco nella steppa infinita. Taptuk, non appena ebbe palpato il volto e le spalle di quel vagabondo affamato di sapere, gli promise la Verità.
    - Ti verrà poco a poco, gli disse. Per il momento non ho niente da insegnarti. Il tuo lavoro consisterà dunque nello spazzare sette volte al giorno il cortile del monastero.
    Yunus obbedì di buon grado. Nell’attimo stesso in cui si era trovato davanti a quel gran vegliardo dal cranio rasato, si era sentito pervadere da una da una fiducia incrollabile. Era sicuro che essa non lo avrebbe più abbandonato. Sette volte al giorno spazzo dunque il cortile di buona lena, salutando allegramente il maestro e i suoi discepoli quando si recavano insieme alla casa della sposa dove Taptuk il cieco insegnava ogni mattina. Presto si meravigliò che nessuno rispondesse ai suoi saluti. – Che i novizi mi ignorino, pazienza, si disse, ma colui che mi ha accolto nella sua casa con tanta semplicità, perché non mi rivolge mai la parola? – Un anno trascorse così, poi due e tre anni, senza che nessuno gli parlasse. Allora il cuore di Yunus si fece pesante.
    Senza dubbio questo silenzio significa qualcosa, pensò. Certamente il mio maestro vuole insegnare qualcosa alla mia anima, poiché è all’anima che si rivolge la parola senza voce.- Riflettè nella sua solitudine indigente, scacciando sette volte al giorno la polvere, che il vento riportava incessantemente nel cortile del monastero. Infine, un mattino di primavera, mentre usciva dalla sua capanna, con la scopa sulla spalla, ebbe una illuminazione. – Ho trovato: Taptuk vuole insegnarmi la pazienza -, pensò. Esultò in cuor suo, contento della propria scoperta e si rimise a spazzare il cortile con rinnovato ardore. Erano trascorsi cinque anni. Ne trascorsero ancora altri due, poi tre, poi cinque, senza che la sua sorte mutasse. Allora Yunus si lasciò prendere dalla disperazione. – Che cosa ho fatto per meritare un indifferenza così lunga? si disse. Forse il mio maestro mi ha dimenticato. O forse per lui non sono che un idiota raccolto per pietà, buono solo a scacciare la polvere – Si sforzò tuttavia a riflettere con calma. In una notte di tempesta, gli venne in mente che Taptuk volesse forse insegnarli l’umiltà. Nell’oscurità agitata in cui era disteso, sorrise. – E’ così. Vuole insegnarmi l’umiltà – si disse. L’indomani mattina, quando si mise al lavoro, i suoi gesti erano più misurati e, poiché il suo cuore era in pace, si mise a canticchiare spazzando il cortile. Poca cosa: parole che gli venivano così, canti che gli salivano alle labbra e che lasciava andare al vento, per la sola soddisfazione di udire una voce umana.
    Tuttavia, la sua fiducia in Taptuk poco a poco lo abbandonò. Decisamente, quell’uomo lo aveva ingannato. Non aveva mai avuto l’intenzione di insegnarli ciò che pur gli aveva promesso. – Perdo la mia vita a sperare- pensò. Per altri cinque anni spazzò il cortile canticchiando, senza che nessuno lo ascoltasse. Una sera, stanco di quell’esistenza da povero diavolo e convinto che nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, decise di lasciare quel luogo in cui, dopo quindici anni di umile pazienza, non aveva trovato che amarezza e malinconia.
    Se ne andò via dunque nella notte, guardando diritto davanti a sé. Camminò fino all’alba, ebbro di libertà senza speranza. Ebbe fame e sete, ma non c’era alcuna fonte cui dissetarsi, nessun riparo in cui rimettersi in forze in quello sconfinato deserto di erbe ingiallite, di sassi e di vento. – Morirò, si disse. Che importa! Meglio morire camminando che spazzando il cortile di un pazzo.- Camminò dunque per tre intere giornate.
    La sera del terzo giorno, mentre stava per sdraiarsi su una roccia per offrire il proprio corpo sfinito agli avvoltoi, scorse in lontananza un accampamento. Si meravigliò. Nessun viaggiatore si avventurava mai in quelle contrade. Chi potevano essere quelle persone? Si avvicinò. Vide degli uomini seduti davanti a una grande tenda. Facevano festa ridendo e parlando forte. Non appena lo scorsero, gli fecero segno, e con grida gioiose, lo invitarono a dividere le loro provviste. Frutti lucenti, focacce dorate, arrosti profumati, bevande di ogni colore in bottiglie di vetro erano sparsi a profusione davanti a loro su un tappeto di lana.
    Yunus prese posto in loro compagnia, bevve, mangiò, osò infine chiedere a quelle persone per quale miracolo disponessero, in quel deserto ostile, di cibi così delicati che non ne aveva mai gustati di simili. – Una voce ci ha condotti qui, gli risposero. Di certo è il miglior posto del mondo. Tutti i giorni il vento ci porta di lontano i canti di un ignoto derviscio. Ci basta ascoltarli, cantarli anche noi. E subito ci compaiono davanti tutti i cibi succulenti che vedi qui. Saremmo matti ad andare a vivere altrove.
    Yunus, estasiato, confessò di non capire nulla di una simile magia e osò infine chiedere ai suoi compagni se, per estrema cortesia, potessero insegnarli quei canti altori per non morire di fame in quella steppa in cui doveva andare da solo.
    -Volentieri risposero gli uomini.
    E si misero a cantare. Allora Yunus, sorpreso, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, udì i canti che aveva intonati per cinque anni spazzando il cortile del monastero. Riconobbe le parole uscitegli dalle labbra nell’unico desiderio di ingannare la solitudine, le musiche salitégli dal cuore nella sola speranza di alleviare la malinconia. Esse erano opera sua. Sull’istante comprese per quale scopo fosse al mondo, assaporò la pura verità del suo animo e partì la peggiore vergogna, pensando a Taptuk che lo aveva istruito senza che lui intuisse nulla, come un figlio infinitamente amato.
    Allora abbracciò gli uomini che lo avevano accolto e tornò di corsa al monastero, piangendo – Taptuk mi perdonerà di aver dubitato di lui? pensava bevendo il vento. Riuscirà mai a perdonarmi?
    Sul fare della notte, giunse alla porta tarlata che chiudeva la recinzione. Battè con il pugno, chiamando e chiedendo pietà. Il volto della sposa di Taptuk apparve al di sopra della cinta. – Eccoti di ritorno, Yunus, disse dolcemente la donna. Povera creatura ,non so se Taptuk ti accetterà di nuovo tra noi. La tua partenza lo ha gettato nella disperazione. – Che sventura, mi ha detto, il figlio più diletto mi ha lasciato. Che cosa vale ormai la mia vita? –
    Adesso ti apro. Ti sdraierai nella polvere del cortile. Domani, quando il tuo maestro farà la sua passeggiata mattutina, inciamperà nel tuo corpo. Se dice: - Chi è quest’uomo?- Allora dovrai andartene per sempre. Se dice: - E’ il nostro buon Yunus? – allora saprai di potere di nuovo vivere alla sua presenza. Entra figliolo.
    Yunus si distese nella polvere del cortile.
    L’indomani mattina, vide avvicinarsi Taptuk il cieco al braccio della sua sposa. Chiuse gli occhi, sentì un piede contro il fianco e udì:
    E’ il nostro buon Yunus?
    Yunus si alzò, abbagliato dalla luce e pazzo di felicità, corse a prendere la sua scopa e si rimise a spazzare il cortile. Così fece fino alla morte, senza saltare un solo giorno. Dopo che divenne simile alla polvere mille volte volata via, i suoi canti si innalzarono, invasero i luoghi in cui vivevano gli uomini e li nutrirono con tanta perseverante bontà che ancora oggi nove villaggi, in Anatolia, rivendicano il privilegio di avere sul loro territorio la vera tomba di Yunus Emre, l’uomo che Taptuk il cieco illuminò.


    Sono il marinaio amato che i cieli ammirano:
    l’oceano è la mia goccia d’acqua.
    L’al di la degli orizzonti del mare mi appartiene.
    Poiché questa mano non conosce che il cammino
    che conduce verso l’Amico,
    la mia lingua né padrona né schiava,
    dirà la verità.
    Prima che l’uomo comparisse
    e si animasse al soffio vitale,
    prima persino che Satana
    diventasse l’angelo caduto,
    i cieli erano i miei ambulacri.

    Yunus Emre



    Wallace
    Wallace


    Messaggi : 298
    Data d'iscrizione : 27.11.11

    Racconto dei saggi Sufi Empty Re: Racconto dei saggi Sufi

    Messaggio  Wallace Lun Feb 25, 2013 10:03 pm

    Un bellissimo racconto, ricco di insegnamenti sottili quanto profondi.
    Grazie Libellula

      La data/ora di oggi è Gio Mag 02, 2024 3:31 pm